E quindi uscimmo a riveder le stelle
Il mio 2021 in un tot di vini che ho bevuto e perchè
Successore diretto del 2020 che ha deciso di donarci niente meno che una pandemia, il 2021 è partito caricandoci di aspettative per un domani migliore e rivelandoci invece, stagione dopo stagione, la tragica verità che no, non c’è limite al peggio.
E così 12 mesi dopo ci ritroviamo in lockdown non più imposto da bizzarri figuri al governo o riuniti nel misterioso CTS, ma un lockdown volontario di fronte a che quella che in questi giorni ha tutta l’aria di essere l’ondata di contagi più imponente nella recente storia del corona virus in Italia.
Ecco qualche telefonata tipo di questi ultimi giorni
Driiiin, driiiin – il bollettino di guerra
X:”Ue come stai?”
IO: “Ma io bene, oggi ho contato le tegole del tetto della casa di fronte.”
X: “Ah ottimo, io invece stavo uscendo a cena, ma niente altri due amici positivi”
Driiiin, driiiin – il paradosso
IO: “Hei ciao, come te la passi?”
X: “Ma bene, peccato che abbia dovuto cambiare casa.”
IO: “Perchè sei positivo anche tu?”
X: “No, no, per fortuna resisto, ma i miei tre coinquilini sono positivi e niente, si tengono la casa e io sono in albergo”
Driiiin, driiiin – tutti scienziati
X: “Che test hai fatto?”
IO: “Il molecolare”
X: “Ah beh, meglio dell’antigienico.”
Driiiin, driiiin – scetticismo
X: “Hei, ho saputo che sei a casa, come stai?”
IO: “Ma ora meglio, febbre passata”
X: “Ma si, alla fine è un’influenza”
E sticazzi mi viene da dire. Sfinita più dal telefono che dal virus, non mi è rimasto molto altro da fare se non dare una ripulita alla galleria di foto sul mio cellulare ripercorrendo quest’anno al contrario e ritrovando molti sorrisi che avevo dimenticato (ragazzi a stare soli viene una depre allucinante, non vogliateme) e anche più di una etichetta interessante. Così ho pensato di raccontarvi il mio 2021 nel modo che da sempre mi si confà maggiormente, vino dopo vino.
Gennaio – la brutta copia di dicembre
Sì, perchè nonostante si fosse carichi di speranze per il futuro la verità è che il alla mezzanotte del 1 gennaio 2021 eravamo chiusi in casa a cercare di dimenticare un anno orribile stappando splendide bollicine. Nel mio caso come testimonia la foto era a casa mia a Torino e per l’occasione avevo scelto come bolla non un classico Champagne (perchè me ne sarei innamorata più avanti, continuate a leggere) ma il metodo classico fatto con uve autoctone portoghesi – Bical e Arinto – 3B di Filipa Pato.
Con gli amici ci si poteva vedere solo in casa, ancora i locali erano ben lontani dal poter riaprire, e in uno di questi ritrovi – più o meno clandestini,
onestamente non mi ricordo più le regole del gioco – mi era stata avanzata una bella sfida: abbinare un vino alla cucina asiatica. Un pollo marinato con soia, anacardi, riso speziato e qualche altra diavoleria: ci ho provato con un vino che amo oltre ogni limite, il cortese macerato Solleone di Cascina Grillo. A dirla tutta, non so se il Solleone ha incontrato proprio bene il Sollevante, sicuramente però si è dimostrato una bella bombetta come sempre.
Sempre in casa la mia cara amica Valeria, chi mi segue anche su Instagram ormai conosce benissimo, mi aveva portato a sorpresa petto d’anatra affumicato e Chenin della Loira. Ma non uno qualsiasi, ma Patapon blanc di quella gran donna della Nathalie Gaubicher che dal 2012 da sola porta avanti un sogno che era per due (qui un bel riassunto della storia di come sia capitata tra le vigne).
Gennaio non solo vino, ma ho fatto anche la conoscenza con la dalmata più
dolce del pianeta e della birra su cui il suo padrone e produttore svizzero Julien ha scelto di ritrarla: Tarocco di Chien Bleu, un omaggio alla Sicilia in ogni sua forma.
Febbraio – lo sfuso naturale
Cosa vedo spuntare nelle foto? Una bag-in-box nella mia cucina! Il rosso perugino di Marco Merli. E si, perchè in quei mesi uno sfuso in casa per farsi coraggio insieme alle mie coinquiline non poteva mancare tanto che avevo anche raccolto un po’ di indirizzi utili per procurarsi dello sfuso di qualità.
Per molti non fu amore a prima vista con il vino naturale in bag-in-box ma di necessità virtù e soprattutto di fronte a grandissimi vini solo in un formato nuovo, piano piano anche i più scettici si sono ricreduti e hanno iniziato ad acquistare dando anche una bella boccata d’ossigeno alle piccole aziende vinicole piegate da mesi di mercato bloccato dalla chiusura dei ristoranti.
Per il resto devo dire che a febbraio c’era ben poco da fare, le giornate passavano sempre uguali con ancora molta apprensione per i mesi di un inverno che sembrava letteralmente non finire mai. Si apriva così qualche bottiglia insieme, a lavoro, per tornare a trovare un po’ di quel piacere che solo il bere il vino insieme può dare, perché per me, da soli è un’altra cosa.
Tra quelle bottiglie voglio riportare un vino eccezionale come lo Chardonnay di Borgogna, cru En Chatelaine di Robert Denogent. Sapevo di amare la Francia, non sapevo ancora di amarla così tanto.
Poi, non chiedetemi bene come e perchè, ma a febbraio torna a spuntare nella galleria qualche foto scattata al ristorante, mi sembra che si potesse andare solo a pranzo. Infatti proprio una domenica a pranzo sono stata per la prima volta all’Osteria del Gallo, trattoria tipica milanese a pochi chilometri dal centro a Gaggiano. Carta dei vini strepitosa in cui ho scovato un meraviglioso Trousseau dello Jura prodotto dalle manone di quel gigante buono che è Jean-Francois Ganevat.
Per il resto la sera, non dovendo lavorare, ci si ritrovava spesso con i colleghi a far due chiacchiere ed è così che a casa della mia amica Silvia – nonché chef di Vinoir a Milano dove lavoro – ho riassaggiato la trama autentica, ruvida, complessa di un grande bianco naturalissimo: Tempo dopo Tempo di Raffaello Annichiarico, Grieco e Cerreto vitigni autoctoni dell’entroterra beneventano (qui trovate il racconto di quando sono andata a trovarlo a Veneri Vecchio qualche anno fa).
Marzo – in fissa con il sake
Un mese difficile, che vorrei dimenticare per la sofferenza che mi ha chiesto di sopportare. Sono spesso andata in Friuli dalla mia famiglia per la più triste delle circostanze: è la vita, non ti avvisa quando prende una brutta piega, o giri anche tu o deragli.
In occasione di una di queste trasferte in Carnia, facendo un giro da distributore di vino di Tolmezzo, trovo un piccolo reparto dedicato al vino naturale, c’è persino un macerato di Oslavia. “Solo questo?” chiedo al titolare. “Si, si, sono vini strani, insomma non si può dire che siano buoni.” Non me la sento di ribattere, ma portandomi a casa una bottiglia di Malvasia Chioma Integrale dei Vignai da Duline, penso che qualcosa ci è sfuggito di mano se un vino che riceve elogi e plausi sulle tavolo di Hong Kong e New York viene denigrato a casa sua, nella regione in cui è prodotto. Trapela un problema di comunicazione, la necessità di elaborare un linguaggio più universale che faccia davvero rivoluzione nei gusti e nei gesti. Non è la sede ora, oggi, ma magari tornerò a parlarne.
Marzo, marzo è anche il mese in cui ho imparato finalmente cosa abbinare al cibo orientale! Ravioli, ramen, il sushi – per me maledettamente inabbinabile al vino: la risposta è nella tradizione, è nel sake. Un fermentato giapponese meraviglioso, si parte dal riso (ad ogni sake una certa varietà, come in un terroir) e si arriva ad una bevanda trasparente, eppure intensamente aromatica, a volte floreale a volte lattica, da bersi fresca, temperatura ambiente, o calda a seconda delle caratteristiche del cibo.
Ed è grazie a Chicca Vancini, mio Virgilio in questa discesa nel mondo del sake, che scopro che se il vino si abbina per contrasto e si beve tra un boccone e l’altro per “pulire la bocca” con il sake è tutto il contrario, va impastato con il boccone per goderne al 100%. Un sacco di curiosità che trovate nella diretta Instagram con Chicca e in un bellissimo libro che ho ricevuto in regalo per il mio compleanno “Sake, il giappone in un bicchiere” di Marco Massarotto.
Che poi non fraintendetemi, va bene il sake ma per me niente batte un bicchiere di Lambrusco! Per esempio questo di Gianluca Bergianti, maestro indiscusso del modenese nella sua azienda di Carpi Terre Vive.
No Autoclave il nome di questa etichetta: un vino manifesto di un metodo alternativo, quanto antico che non vede l’aggiunta di zuccheri e l’utilizzo appunto dell’autoclave per la presa di spuma, ma si basa sul naturale processo per cui in inverno la fermentazione “va in letargo” per ripartire in primavera con i primi caldi, nella bottiglia. Blendi di tutte le varietà presenti in azienda: Salamino di S. Croce, Sorbara, Pignoletto in percentuali variabili in base all’annata. Un vino corroborante per lo spirito, con note di rabarbaro finali che chiamano un beva sorprendente.
Aprile – stazionario
Le foto del mese di aprile nell’insieme mi restituiscono un’immagine di un periodo che rientra per me nel concetto di stazionario, niente andava significativamente peggio, niente significativamente meglio.
Si continuava a lavorare in orari strani, con chiusure anticipate, solo all’esterno, boh tutta una confusione di regole che a pensarci oggi vi giuro che pare una barzelletta. Fatto sta che per questa strana combinazione di fattori mi sono trovata a bere uno dei miei rifermentati preferiti in Darsena con la luce di un tramonto quasi perfetto. E’ un momento che ricordo con calore, per l’amicizia, per l’intensità, per il vino così buono.
Perchè diciamocelo, ad aprile era difficile tirare un bel respiro, e l’ansietta la faceva da padrone. Un evento improvviso non particolarmente felice è stato il dover salutare una delle mie coinquiline in partenza per un anno di specialità all’estero. Per l’occasione abbiamo deciso di esorcizzare la malinconia e organizzare una bella cenetta nella nostra Casa delle Libertà a base della gastronomia urbana di Perdomo R.O.C. , torta cioccolato e lampone di Clivati e bollicina metodo classico di Malvasia di Sitges, rara uva in via di estinzione lavorata da Clos Lentiscus in Catalunya.
Come ogni aprile poi ha iniziato a piovere, ma quella pioggia già un po’ calda che ti bagna e ti fa solo venire voglia di essere come Licia e passi le tue giornate a cercare Giuliano. Invece sotto la pioggia di Milano ho conosciuto uno dei pochissimi produttori molisani naturali, Michele di La Giostra, uscito nel 2021 con la prima annata vanificata in Abruzzo da Lammidia usando però solo uve della sua terra tra cui l’unico autoctono del Molise, l’uva rossa Tintilia.
Maggio – questo mese non esiste
In realtà maggio è stato pure abbastanza un bel mese direi, ma il titolo è tutto dedicato all’uscita del primo e unico vino che non esiste o meglio, che non esisteva.
Perchè grazie all’impegno di Cascina Barban e di Nebraie un’antica varietà d’uva autctona della Val Borbera, il Muetto, è stato registrato – mediante un crowdfunding – nel registro nazionale delle uve e lo si è potuto finalmente etichettare e distribuire. Così oggi il Muetto non solo esiste ma è di tutti, un simbolo di quello che il vino naturale deve davvero promuovere, ovvero la salvaguardia di un territorio per un’interna comunità, per tutti noi. Vi lascio qui il link a una bella diretta che avevo fatto qualche mese prima con Maurizio Carucci di Cascina Barban: c’è molto vino, molta politica e molta società.
In una delle mie poche serate libere – si poteva lavorare nei locali fino alle 22, quindi abbiamo imparato ad andare a mangiare alle 18.30 come i tedeschi, ci mancano solo gli spaghetti con il cucchiaio e la trasformazione è avvenuta – in una serata libera dicevo, sono andata da Nebbia a casa di Marco Marone che aveva messo in carta da poco la nuova annata del bianco di Corrado Dottori, vignaiolo a Cupramontana nelle Marche. Un Terre Silvate in gran forma, molto pulito, ancora giovane com’era prevedibile ma che mi ha dato una grande energia (anche se ho dovuto finirlo a canna sul marciapiede per raggiunto limite orario).
Sempre a maggio ho scovato le prime foto scattate all’Osteria della
Concorrenza, una nuova enoteca in Via Melzo con cucina fredda curata da Diego Rossi e una mescita naturale frutto dell’ingegno di Enrico Maria Porta che da appassionato ha finalmente coronato il suo sogno di essere oste. Qualcuna l’abbiamo aperta quel pomeriggio, in compagnia di molti altri del giro naturale, e mi ricordo bene questo rosato frizzante del Signore dei Lambruschi Vittorio Graziani. Sferzante e succoso come non mai.
Giugno – il mio mese
Sono gemelli, ascendente gemelli. Nata in un afoso venerdì 2 giugno a Torino, come quasi tutti i bambini di Torino, anche io all’ospedale Sant’Anna. Odio sia il caldo che il venerdì. Ma mi piace tantissimo il giorno del mio compleanno, e quest’anno ho avuto per la prima volta – avendo cambiato lavoro da biologa a oste – di festeggiarlo mescendo una magnum di rifermentato La Damigella di Podere Cervarola da dietro il bancone di Vinoir, da sempre la mia enoteca preferita di Milano. E sì, è uno dei momenti in assoluto da salvare di questo 2021.
Dopo il 2 giugno i festeggiamenti si sono allungati, come da tradizione, per almeno una settimana portandomi a stappare in diverse circostanze vini inconsueti da paesi lontani. Ho scoperto la salinità dei paesi baschi spagnoli, nei pressi di Santander, che ancora ho in programma di visitare, con il bianco appena macerato di Oxer Wines e che vi avevo raccontato con tutta la sorpresa che portava con sè. Poi è stata la volta dell’ Autochtonous di Bencze, vignaiolo ungherese che dopo aver sorpreso tutti con le sue interpretazioni dei grandi internazionali sulle sponde del lago Balaton, nel 2020 ha iniziato a vinificare le varietà autoctone della sua
Ungheria come il Kenknyelu, l’Harsevelu e ovviamente il Furmint.
Poi ancora sono andata fino in Repubblica Ceca con il “miscuglio selvaggio” questa la traduzione del rosato Dyvy Risak di Stavek. Un vino che è ispirazione, che è messaggio nella bottiglia.
Luglio – di vigna in cieca
Luglio è stato il primo mese dell’anno a convincermi, e dato che come si diceva sopra odio il caldo e dunque non sono grande fan dell’estate devo dire che per luglio è un gran bel risultato.
Merito va soprattutto al fatto di essere tornata a fare qualche bel giretto in vigna dopo tanti mesi di immobilità che nel mio caso si era protratta anche a livello psicologico nei giorni a seguire l’allentamento delle restrizioni covid. Insomma come quando apri le sbarre ad un animale in gabbia e quello non esce, ecco mi sentivo un po’ così.
Poi è arrivato un bel fine settimana nell’ovadese ospitata nell’azienda a zero solfiti Rocco di Carpeneto con l’unica clausola che non avessi paura dei cani – due manette di 40 kg l’una – con cui sono finita a farmi i selfie appena sveglia la
mattina, alla grande direi.
Trovandomi già in zona, insieme a Gianluca che lavora per Lidia e Paolo del Rocco, siamo andati a fare visita in quella che è una mecca per tutti noi vinnaturisti, Cascina degli Ulivi, l’azienda che fu di Stefano Belotti e che oggi viene portata avanti dalla figlia Ilaria tra vigneti e
agriturismo. Un’esperienza indimenticabile, un luogo che ha un’energia unica e vi giuro dovreste andarci per capire che non è solo la solita frase che si scrive, ma una sensazione, reale, tangibile. Camminare nel “set” del docu-film di Nossiter Resistenza Naturale (qui lo potete vedere in francese su YouTube), conoscere il cane che è sull’etichetta di Filagnotti, bere lì al tavolo la birra Cantillon prodotta Belgio utilizzando le vinacce dell’azienda e che non è commercializzata altrove, beh per me non ha prezzo.
Infine nel pomeriggio finalmente è stata l’occasione di visitare la Val Borbera che tanto mi era stata raccontata dai Martina e Maurizio di Cascina Barban che proprio in quei giorni di luglio timidamente provavano a tornare alla normalità organizzando la festa Boscadrà. Il selfie brutto che fa copertina a questo diario me lo sono scattato in quel pomeriggio eterno di inizio luglio, quando ho fatto un bel respiro profondo.
Devo dire che luglio ci ha riportato in una vita normale, zona bianca mi pare se ricordo bene, e sono potuta tornare in quella che è la ma seconda casa a tarda notte, il Rita Bar del Naviglio, luogo ameno dove sono arrivata ad accumulare sul bancone tre delle mie cose preferite: un macerato (da un’altra enoteca di Milano), la birretta defaticante post-servizio, e un daiquiri. Tutto insieme.
A luglio poi da Vinoir è arrivato un nuovo collega, Marco Cesani e con lui due curiosi effetti collaterali, non riesco più a fare a meno di bere almeno un paio di bottiglie alla settimana alla cieca (significa
bottiglie coperte, da indovinare usando i propri sensi ma senza lasciarsi condizionare dall’etichetta, il miglior modo per capire il vino, non c’è dubbio) e se ho voglia di una bollicina dev’essere Champagne.
Grazie alla generosità di Marco infatti ho iniziato a berne molti, a iniziare a comprenderne le sfumature, i dosaggi, i cru, i millesimi, le ossidazioni. Lo champagne è un mondo dentro al mondo di cui ci siamo già bevuti la chiave.
Agosto – l’Italia si è fermata a Bari
Il caldo si faceva sempre più insopportabile e non vedevo l’ora di andare in vacanza, finalmente dopo due anni una vacanza vera, l’Italia da Milano a Lecce, andata e ritorno. Giusto il tempo di bersi l’ultima da Vinoir e ironizzare sul fatto che al secchiello per la spiaggia preferissi il secchiello del ghiaccio per
rinfrescare il Lambrusco di Podere Cervarola e via in macchina con Valeria verso il profondo sud in cui non ero mai stata.
Prima tappa è stata Parma, perchè questa piccola cittadina di provincia mi era mancata da morire, lì nell’enoteca il Tabarro di Diego Sorba avevo passato una delle più belle serate prima che incominciasse l’epopea covidosa in occasione di Vini di Vignaioli a Fornovo nel 2019.
E lì volevo tornare, quasi potesse scaramanticamente rappresentare un punto da cui ripartire. Già che c’eravamo, perchè non fare una tappa da Camillo Donati? Appena pochi chilometri a Sud di Parma, una bellissima azienda dove fare scorta di lambruschi, malvasie e trebbiani rifermentati per l’inverno.
Da lì via, sempre più a Sud: Bologna dove ho assaggiato diversi produttori locali, garagisti o meno, che non conoscevo (in foto il Bianco dell’Osservanza
di Ca del Genio, Pignoletto di grande spessore, consigliato), poi le Marche con maceratoni del cuore come il Pinot Grigio di Paraschos bevuto davanti a panorami eccezionali, poi la costa Abruzzese con Cirelli bevuto sul trabucco, poi il Gargano con ben poco vino naturale (meno male che avevamo scorte in macchina), poi ancora a Sud per scoprire usciti dal casello di Bari,
direzione Lecce, ancora circa 200 chilometri, non esiste più un’autostrada su cui viaggiare, ma solo una delle più terrificanti super strade che abbia mai percorsa. L’Italia finisce a Bari, il resto è stato autonomo del Salento.
Sulla via del ritorno nuova tappa enologica questa volta nel cuore dell’Abruzzo, ci tenevo tantissimo infatti a “tastare con mano” la biodinamica applicata da Stefano Papetti, bolognese trampiantato a L.A. – Loreto Aprutino, nell’azienda De Fermo.
Biodinamica pura, vissuta e sentita da ogni cellula di Stefano e da ogni ettaro della sua grande azienda che comprende vigneti di Montepulciano, Pecorino, Chardonnay, uliveti e coltivazioni di grano, ceci e alberi da frutto.
Siamo quasi morti facendo il giro per l’azienda sotto il sole del 20 agosto ma ne è valsa totalmente la pena, la biodinamica per me si può compredendere solo da vicino. Il racconto non basta.
Settembre – un mese quotidiano
Dopo un’esperienza come quella di Milano-Lecce on the road, settembre si è rivelato per me un mese in cui ho dato grande spazio alla quotidianità piuttosto che all’avventura. E dopo mesi di reclusione è stato proprio bello rivivere la bellezza di quei piccoli piaceri che non avevamo più: bere serenamente il caffè al bar, andare a pranzo fuori, partecipare a una fiera – nel mio caso sono stata per la prima volta a Cheese la manifestazione organizzata da Slow Food sul formaggio a Bra, nelle Langhe – o organizzare un pic-nic al parco proprio per mangiare tutti i formaggi comprati a Bra in abbinamento al grande rosso umbro Pipparello di Paolo Bea, maestro indiscusso anche se sempre più difficile da trovare in Italia.
A settembre ho conosciuto – oltre al rosso che avevo già bevuto – anche il delicato rosato di Cabernet e Syrah di Mirco Pauletti che fa il vino naturale di Milano a San Colombano e mi ha svelato che anche Milano ha un’isola.
Poi ho bevuto la nuova annata 2019 di quei bravi ragazzi di Formiche Vini che in Toscana curano un sogno tutto loro di riscatto e originalità per un vitigno piuttosto dimenticato come l’Ansonica. Due etichette una più tradizionale e una più macerata per una produzione totale che non supera le 5000 bottiglie. Piccoli ma forti come delle formichine che, nessuno ci pensa mai, sono gli unici animali in grado di sollevare fino a 50 volte il loro peso.
Questi bei ritmi quotidiani sono stati notevolmente alterati dalla telefonata del mio commercialista che mi riepilogava il mio debito di tasse IRPEF con lo Stato. L’ho presa così bene che sentendomi la persona più povera della città sono andata da Cantine Isola a bermi un Savagnin ouillè (ovvero non ossiadativo) di Labet perchè la povertà si supera solo esorcizzandola.
Ah, piccola nota personale sul mese di settembre, è andata via da Milano la mia seconda coinquilina, colpo al cuore da cui credo mi debba ancora riprendere. Sono un’emotiva lo sapete.
Ottobre – Vive la France
Ad ottobre, dopo aver festeggiato un anno di lavoro da Vinoir, ho finalmente ripreso un aereo e me sono andata a trovare la coinquilina che ad aprile si era trasferita all’esterno e che con mia grande, grande gioia tra tante mete aveva scelto proprio Bordeaux in Francia permettendomi così mi unire il piacere di rivederla al piacere di conoscere un po’ da vicino la Francia del vino.
Bordeaux per noi vinnaturisti però significa solo una cosa: Robert Parker e Michel Rolland. Se c’è un luogo da cui infatti l’omologazione del giusto del vino ha avuto inizio, quella terra è indubbiamente bagnata dal fiume Gironda. La cosa mi spaventava, ma credevo anche in una Bordeaux diverso e ho iniziato ad indagare.
Molti i nomi che mi sono stati suggeriti, quasi tutti piccoli vignaioli indipendenti lontani dalle denominazioni più famose del Bordeaux che sono infatti ancora controllate dai grandi Chateau convenzionali. Su tutti Le Puy, azienda biodinamica tra le prime a tentare un’inversione di rotta nella zona, ma che non ho potuto visitare perché chiusa nei giorni del mio viaggio.
Ho scelto invece di andare a trovare David Favard di Chateau Meylet per
conoscerlo meglio e per avere l’occasione di visitare il borgo medioevale di Saint Emilion. La visita da Meylett si è rivelata una grande scelta e insieme all’assaggio si qualche sua vecchia annata fuori commercio ho potuto assaggiare un bianco di semillon che sta affinando sotto velo di flor. Cioè ho trovato della flor nel territorio del Bordeaux, credo che ancora oggi faccia fatica a crederci, nonostante abbia anche una foto.
Ma le sorprese non erano ancora finite. La visita al borgo di Saint Emilion è stata infatti animata dal fortunato incontro con Fabrice di Ormiale, una cantina a Mérignas a una cinquantina di chilometri dalla città di Bordeaux. Non avevo idea infatti che Fabrice oltre alla cantina di affinamento a Merignas, avesse una cantina proprio a Saint Emilion dedicata alle fermentazioni dei mosti. Una cantina decisamente non convenzionale, basti pensare che non è solo a Saint Emilion, ma proprio dentro al paese. Si trova infatti dentro ai cunicoli derivati da anni di scavo nelle cave di tufo e pietra da cui si prendeva il materiale per costruire il paese sopra. Cunicoli di alcune decine di chilometri in cui io e le mie amiche seguiamo, non senza un po’
d’ansia, il passo sicuro di Fabrice illuminato appena dalle torce del cellulare. Il giro è poi anche l’occasione per assaggiare come dicevo i mosti di Merlot e Cabernet Sauvignon in fermentazione nel legno, nonché quelli di Semillon (questa volta senza flor ma con le bucce). Una frase mi ricordo ancora, per la potenza con cui è stata pronunciata da Fabrice: ” è meglio non fidarsi di nessuno, il vino lo fanno i poeti e i solitari.”
E ancora oggi voglio ringraziare lo spirito solitario di Fabrice per aver condiviso con me i suoi segreti e la sua anima attraverso il vino.
Novembre – ritorno alle fiere
Fiere di vino quanto mi siete mancate! E a cavallo tra ottobre e novembre è stata di nuovo la volta di
Vini di Vignaioli, la fiera di Christine Cogez (qui la mia intervista!) organizzata di solito a Fornovo e spostata invece per questa nuova edizione nel vicino comune di Varano che era dotato di un capannone più ampio dove poter organizzare l’evento seguendo le norme covid in vigore. Una due giorni intensa dal punto di vista alcolico (ho completamente perso l’allenamento in questi lunghi mesi di stop) ma che mi ha permesso di riabbracciare un sacco di amici tra vignaioli e appassionati e assaggiare un sacco di vini nuovi o che quantomeno io non conoscevo!
E poi novembre è stato il mese in cui finalmente sono andata a trovare
la squadra e le mucche di Lagoscuro: la chiesa del latte. Una bellissima realtà di artigianato agricolo immersa nella pianura cremonese che presto voglio raccontarvi meglio, quindi non vi spoilero niente e per il momento vi lascio la foto di uno dei vitellini nati in quei giorni di metà autunno.
Novembre sono tornata con Valeria a Bologna, perché come cantava Luca Carboni Bologna è una regola. La nostra regola per evadere.
Poi mi sono poi spesso rifugiata, nel mio giorno libero, nell’enoteca Vinello dove Alessandro Ambrosi ha sempre qualche chicca da propormi, di solito macerata perchè ci vado con Valeria che beve praticamente solo macerati (un grosso punto su cui la nostra amicizia deve evolvere, non ci sono dubbi).
Una delle ultime volte abbiamo addirittura infilato una doppietta del calibro di Ariento Massa Vecchia, ancora un po’ giovane 2019 ma già in ottima forma, e l’austriaco Silvaner 2016 (!!) di Hiemat che ricordavo con immenso piacere e un pizzico di emozione da una serata di molti anni prima a Tenuta l’Armonia.
Che serata, chiusa con una capatina nel
mio ristorante preferito, Rost in via Melzo dove rifocillarsi con un piatto a base di storione crudo che ancora mi sogno e ho soprannominato Pantone Storione.
Dicembre – gli ultimi tappi
Gli ultimi tappi per davvero, non solo perchè ultimo mese dell’anno ma anche per la ben poco idilliaca
notizia della mia positività al corona virus che mi ha costretto a passare Natale e Capodanno chiusa in casa da sola, condizione in cui sono quindi evidentemente anche oggi che scrivo le ultime righe di questo lungo diario non richiesto.
Avevo per fortuna ancora qualche bottiglia presa da Donati ad agosto a farmi compagnia, un puzzle a tema vino regalatomi con un tempismo sorprendente dal mio amico Antonio il giorno prima della diagnosi.
Molto tempo a disposizione che prima di sfociare in una noia senza precedenti mi è servito per riuscire a raccontarvi in maniera completa quelli che sono stati i miei libri, atlanti e riviste sul vino (naturale e non) più importanti in un articolo che è in via di aggiornamento e che potete trovare qui!
Pur da sola, la sera del 31 mi sono fatta coraggio e per brindare ho aperto il cremant meno cremant
della storia: Le petite Beaufort. Siamo in Borgogna con i due figli di Beaufort, grandissimo produttore naturale di Champagne, che curano pochi ettari di Chardonnay e Pinot Nero producendo delle bollicine
di una finezza e classe che superano di gran lunga i confini del territorio in cui nascono.
Leggero dosaggio che ammorbidisce questo millesimo 2017 senza renderlo ciccione o pesante ma irrobustendo una trama sottile come
quella di un prezioso cristallo. Un vino perfetto per sigillare l’inizio e la fine. Un vino perfetto per festeggiare il fatto che di fatto mi pare non sia cambiato niente.
E quindi ho finito oggi 1 gennaio 2022 la scrittura di questo diario che apparirà totalmente non richiesto, ma che mi ha aiutato a sopportare questi ultimi giorni di duro isolamento e che spero che nel suo piccolo possa aver incuriosito qualcuno di voi verso bevute insolite, sempre naturali e a fermentazione spontanea.
Questo 2021 ci saluta con oltre 120.000 contagi al giorno, ATS al collasso e una variante omicron subdola come una faina. Non si resta che sperare che come ogni spettacolo pirotecnico che si rispetti termina con un tourbillon di botti e colori così ravvicinati da “contagiarsi” l’un l’altro, dopo questo exploit finale non ci rimanga altro che il cielo e finalmente uscire a rivedere le stelle.
Ben arrivato 2022, l’anno dell’illusione.