La dura legge del tartufo

La dura legge del tartufo

Novembre 1, 2020 1 Di lasecondadolescenza

Siamo circondati dalla più grande catastrofe mondiale dopo la Grande Guerra. Dal panettiere, a lavoro, al bar con gli amici (ah già, non ci possiamo più andare…), al telefono con gli amici quindi, non si parla d’altro che di lui, il Covid, quasi fosse diventato il vecchio parente ubriaco alle cene di famiglia o quell’ex invadente che puntualmente torna. E infatti anche il Sig. Covid è tornato, un po’ in anticipo rispetto al previsto, sempre fuori luogo come gli si addice e questa volta ben convinto a sedersi sul nostro divano per rimanerci ben più a lungo del tempo di un tè e qualche educato convenevole. Tutto questo per dire che, nonostante la gravità della situazione, non se ne può davvero più di un tale orbiting costante di (qualcosa)-ologi reali o presunti. Come sfuggire quindi? Nessun angolo della casa è al sicuro, radio, telefono e tv possono raggiungerci ovunque, ma esiste un luogo dove invece miracolosamente tacciono. La campagna.

Così ci sono scappata con lo stagionale pretesto di andare a raccogliere tartufi bianchi. Cosa ne so io di tartufi? Essenzialmente nulla perché se, certo, tagliati sottili su un piatto di tajarin mi hanno sempre fatto felice, so bene che quel gesto altro non è che il titolo di coda di un film avventuroso fatto di terra, alberi, radici, cani e ovviamente tartufai. Ed era ora che me lo godessi tutto.

Arrivo nel Monferrato, punto di ritrovo il piccolo borgo di Rosignano, ad una decina di chilometri a Sud di Casale. Protagonisti di questa storia sono Emanuele Rendo, 28 anni quasi agronomo, e Brina, nata a Nichelino, pura razza bastarda: sposati da dodici anni, stanno sempre a battibeccare e scherzare, lei fa Sandra, lui Raimondo. L’ha addestrata da solo, con dolcezza e pazienza (non è sempre così, nel mondo del tartufo a volte i cani se la passano maluccio) e Brina dopo 5 anni ha imparato, adesso non la ferma più nessuno.

Indossati gli stivali di gomma, sono pronta. “Alora, ‘nduma!” e inizio a seguire Emanuele in un ampio e umido fondovalle. Cercare i tartufi, in pratica vuol dire camminare, ma camminare tantissimo ed in mezzo all’erba alta che è un po’ come la neve fresca e si fa il doppio della fatica, camminare superando boschetti e fossati e senza mai perdere di vista Brina. Una delle prime cose che imparo infatti è che, a differenza del cacciatore, il tartufaio parla molto con il suo cane, lo indirizza, lo incoraggia, lo tiene concentrato.

 

 

Siamo nel Monferrato dicevo e forse questo è già parte della storia, perché – udite udite – non tutto il tartufo bianca di Alba (così ci si riferisce comunemente al tuber magnatum) viene da lì. Scopro infatti, che il tartufo bianco non è protetto da una denominazione territoriale e che molto, moltissimo di quello che consumiamo arriva in realtà proprio da questo territorio adiacente (e anche da più lontano, come dal Molise e dalla Slovenia, ma questa è un’altra storia).

Infatti, il Monferrato, sia casalese che astigiano, rappresenta un territorio molto più vocato al tartufo bianco, grazie alla presenza di molti boschi e per gli ampi fondovalle che inseguito all’abbassamento delle falde rappresentano oggi le zone di cerca più fortunate.

Una zona però storicamente depressa a differenza della Langa dove, dopo gli anni ad inizio Novecento della Malora che ci racconta Fenoglio, grazie all’iniziativa di alcuni illuminati personaggi ha visto una trasformazione mediatica dell’agricoltura, con la promozione soprattutto all’estero dei suoi prodotti prestigiosi e ricercatissimi. Tra questi proprio il tartufo che, da sempre diffuso in un areale molto più vasto, è stato associato ad Alba in gran parte grazie all’opera di Giacomo Morra, imprenditore e ristoratore albese, che inviò il raro frutto sotterraneo a figure di spicco del suo tempo (tipo Churcill, Marylin Monroe per intenderci) che se ne innamorarono, iniziarono a parlarne e finirono per visitare le Langhe. Morra dunque, a cui va anche il merito della creazione dell’annuale Fiera, ad Alba ovviamente.

E mentre la Langa fioriva per il vino, la nocciola e il tartufo, nel Monferrato i giovani abbandonavano la campagna per andare a lavorare nelle nuove industrie della zona specializzate nella produzione di cemento armato e, ahimè, eternit.

Infatti, Emanuele è oggi il più giovane tartufaio della zona, l’unico under trenta, e chi è subito sopra di lui per età lo distanzia già di almeno una decina d’anni. Proprio sfruttando la sua giovane età Emanuele ha scelto quindi di seguire la sua passione limitandosi non solo alla ricerca e vendita del tartufo, ma impegnandosi in prima persona nell’istituzione di un consorzio no profit di raccolta del tartufo nella Valle Ghenza, che è dove appunto dove ci troviamo.

 

 

 

Facciamo un passo indietro. Per essere autorizzati a raccogliere tartufi serve ottenere un patentino, che viene rilasciato – dopo un corso introduttivo – dalla Regione a chi abbia più di 16 anni. Così si diventa liberi tartufai. Il libero tartufaio può raccogliere i tartufi in un suo terreno o in un terreno che faccia parte di un consorzio. Il consorzio promosso da Emanuele però ha una marcia in più, infatti riunisce non solo i terreni dei tartufai consorziati ma anche quelli di privati o di agricoltori che abbiano caratteristiche idonee allo sviluppo del tartufo. Oggi è arrivato a riunire ben cinquantuno ettari che rientrando nel programma lui, e pochi altri tartufai, s’impegnano a preservare e tenere puliti.

Infatti, un terreno ricco di tartufi, se lasciato all’incuria, diventerebbe sicuramente improduttivo in pochi anni. È necessario, un costante lavoro di pulizia dei fossati, dei boschi, dei fiumi, di potatura degli alberi per favorire lo sviluppo dell’apparato radicale, di piantumazione di nuove piante capaci di favorire lo sviluppo sotterraneo del tartufo, di controllo verso i tartufai non consorziati, magari hobbisti della domenica che, per inesperienza, rischiano di rovinare per sempre il terreno scavando male o non richiudendo adeguatamente le buche. Insomma, un lavoro immane a difesa della biodiversità naturale di questa valle, un lavoro spesso ignorato, ma necessario a far sì che quella che è una tartufaia oggi, lo possa essere anche domani. Un lavoro a cui si affiancano le iniziative di promozione, di comunicazione, le cerche organizzate per i turisti e altre attività volte alla raccolta di fondi per nutrire la sopravvivenza del consorzio stesso.

Piccolo inciso, quali sono le piante più adatte allo sviluppo del tartufo? Pioppi, querce, tigli, salici. E proprio riguardo al salice Emanuele mi regala un racconto che è uno spaccato storico del ruolo sociale della raccolta del tartufo nel passato. Un tempo la cerca del tartufo era “il secondo lavoro” dell’agricoltore che finito il lavoro nei campi ed in vigna, durante il riposo autunnale andava in cerca del prezioso frutto. Proprio tra i filari era storicamente diffusa la crescita dei salici, i cui rami sottili, potati ogni anno, servivano a legare le viti ai sostegni. Così il salice, di potatura in potatura, sviluppava tante radici superficiali e proprio in mezzo alle vigne si trovavano i migliori tartufi. Una pratica che con il tempo si è andata perdendo, perché ora i legacci sono in plastica e i salici in mezzo ai filari sono d’intralcio al lavoro dei trattori. Eppure, una pratica, che unita alla ripresa negli ultimi anni di una viticoltura naturale, svolta a mano in piccoli vigneti, potrebbe essere ripresa permettendo così la rinascita di quelle incantevoli tartufaie spontanee del passato.

“Perché capiamoci” mi dice “Se continuiamo così, con quest’agricoltura intensiva e con tantissimi tartufai che s’interessano solo a far bottino, che prendono e non danno nulla in cambio al territorio, fra trent’anni non ci sarà più tartufo bianco in tutto il Piemonte.

Trent’anni, non tremila anni. Non so se rendo l’idea. Perché poi c’è anche di mezzo il cambiamento climatico, le estati sono poco piovose e l’inverno non è abbastanza freddo. Soprattutto non nevica più e viene a mancare quell’approvvigionamento idrico delle falde essenziale per lo sviluppo del tartufo nella primavera successiva.

Tra una storia e l’altra, nel frattempo percorriamo chilometri di campagna, ma del tartufo bianco nemmeno l’ombra. Anche Brina comincia a scocciarsi, è la terza battuta della giornata per lei, e inizia a calare il buio. Così ci fermiamo. Sulla strada di casa leggo sul volto di Emanuele un po’ di naturale frustrazione per la cerca fallimentare. “Ripartirai domani mattina?” gli chiedo. “Stanotte” mi dice. “Ah giusto, così puoi essere sicuro di essere il primo a iniziare a cercare.” ribatto. “No.” sorride “Hai visto anche oggi quante macchine parcheggiate e quanto movimento per questa valle. Nella cerca, non sei mai né il primo né l’ultimo. Questa è la dura legge del tartufo”.

Torno a casa convinta di aver appena ricevuto in dono da Emanuele una storia incantevole, fatta di natura, biodiversità, sostenibilità, territorio, lavoro, tradizione. Eppure, una storia delicata che rischia di essere semplicemente spazzata via da un mondo che va troppo veloce, un commercio che richiede ogni anno sempre di più, un lavoro impegnativo di tutela di cui nessuno vuole più farsi carico. M’immagino nel buio Emanuele e Brina allontanarsi nella campagna ormai scura e dura, come due angeli custodi di una realtà in filigrana. Tanto preziosa, quanto fragile.