Teruar 2019

Teruar 2019

Giugno 3, 2019 0 Di lasecondadolescenza

Ho sempre ritenuto la Sicilia una terra semplicemente meravigliosa, nelle sue contraddizioni, nelle sue spigolosità. Quando ho saputo che nell’affascinante Sud Est barocco dell’isola si sarebbe svolta una manifestazione riguardante il mondo del vino naturale, prenotare il primo volo low-cost e andarci mi è sembrata la scelta più razionale. Era fine marzo, una giornata incredibilmente calda, di quel caldo che poi avremmo dovuto imparare a dimenticare.

Così il 18 maggio sono partita sotto una pioggia che manco a novembre e sono atterrata in una Sicilia surreale, grigia e irrigidita da temperature ben lontane dalla normale primavera mediterranea: meta Teruar, tre giorni di festa nel cuore di Scicli.

La location scelta per l’evento è il Convento di Santa Maria del Carmine. Una chiesa imponente e barocca, cuore della città insieme alla vivace piazzetta antistante. Invisibile a chi passeggi per strada invece è il chiostro custodito all’interno del complesso, per l’occasione animato dai tanti banchetti del mercato degli artigiani locali. Passando sul lato orientale e salendo le scale si arriva nelle antiche stanze del convento, la vera sede per la degustazione dei vini. Il voluttuoso barocco della facciata qui lascia spazio a un pareti color crema e a un’architettura essenziale, molto in linea con il messaggio stesso di Teruar: tornare alle cose semplici, dando valore alla nostra origine di acqua e terra.

Quella di questo maggio 2019 è stata la prima edizione della manifestazione organizzata dall’associazione culturale Arsura, in particolare da Pietro Russino, Bartolo Finiello, Giuseppe e Ignazio Fiorilla, con l’obiettivo di promuovere e sostenere lo scambio di idee e soluzioni nell’ambito della viticoltura naturale. Sete Etica è il sottotitolo dell’associazione Arsura, perché “persi all’interno della società del consumo, frutto di un sistema che mira a dissetare solo per convenzioni, la sete etica risulta inappagata”.

E Teruar è stata infatti la festa non solo del vino naturale, ma di tutta la filosofia, del pensiero e della politica che le persone che animano questo mondo condividono. Mi ha subito colpito il fatto che oltre ai tradizionali banchi d’assaggio alcune antiche celle del convento fossero state allestite da giovani artisti locali che attraverso la loro arte, le loro fotografie hanno permesso di raccontare un mondo che va oltre il vino nel bicchiere. Perché bere vino naturale è un effetto innescato da qualcosa di più profondo, dal credere che un mondo migliore possa esistere a partire dal rispetto per la terra, dal comportamento etico e dal consumo responsabile di ognuno di noi, ogni giorno. Bere vino naturale è un messaggio e Teruar è stato il nostro megafono.

Amando molto il vino naturale siciliano e avendo possibilità limitate di berlo spesso a Milano ho orientato i miei assaggi verso le tante cantina siciliane presenti, alcune che non avevo mai sentito, cercando di curare una specie di Master Class Siculo Vinicola “fai da te”.

Tutto è cominciato con l’assaggio dell’unico vino della piccolissima realtà messinese Le Furie. I loro vigneti, tutti ad alberello con tutore di castagno, si trovano su suolo calcareo a 300 metri d’altezza a Castanea delle Furie, ai piedi dei Monti Peloritani. Nerello in prevalenza, ma anche alcuni antichi vitigni bianchi ormai quasi scomparsi che finiscono in assemblaggio con l’uva rossa. L’azienda è ora in conversione al biologico, ma la cura naturale per il piccolo vigneto va oltre ogni certificazione. Le operazioni in vigna sono tutte manuali e la vinificazione è mantenuta il più tradizionale e il meno invasiva possibile. Ne risulta un vino etereo, sottile, gentile e mutevole. Non rimarrà uguale nel vostro calice a lungo e non sarà mai uguale di anno in anno.

Ho proseguito con i vini più a chilometro zero della Manifestazione, quelli di Armosa, unica azienda di Scicli presente, nata nel 2002 proprio con l’intento di riportare la colytivazione della vite in un territorio estremamente vocato, ma sempre più abbandonato negli anni. Impeccabili e austere le loro tre versioni di Nero d’Avola, dal più scattante per tutti i giorni, Siclys, alla vendemmia tardiva, Curma, quasi definibile da meditazione. Ma è stato il loro Moscato di Siracusa in purezza, Salipetry, macerato oltre una settimana, a colpirmi per grande carattere e territorialità, infatti me lo sono bevuto anche a cena!

 

 

Poi ho conosciuto i simpaticissimi ragazzi di Cantina Malopasso che da qualche anno hanno scelto di lasciarsi il caos di Roma alle spalle per riprendere la gestione delle loro vigne di famiglia a Zafferana Etnea, versante Est dell’Etna, verso il mare. Un vero patrimonio il loro costituito da vigneti ad alberello di oltre 70 anni da cui nascono i loro Etna Bianco, Etna rosato ed Etna Rosso dal sapore intenso e personale. Grazie alle loro preziose cure infatti la vigna vecchia di cui sono custodi è capace di regalare sia profumi intensi, che un corpo e una complessità difficili da imitare e che risultano il marchio di fabbrica della loro realtà.

Rimanendo in Etna ho assaggiato per la prima volta anche i vini di Cantina del Malandrino. La piccola realtà di Diego si trova a Mascali e dire che è condotta in naturale è dire poco. Negli stretti terrazzamenti tipici del versante Sud Est, l’inerbimento è totale e i loro ovini pascolano allo stato brado da ottobre a febbraio. Quando chiedo a Diego la composizione del suo terreno, lo metto in difficoltà e non certo per scarsa preparazione in materia ma perché, mi spiega, il suolo nella sua vigna cambia quasi ad ogni passo perché nei millenni ad ogni colata lavica il terreno sottostante veniva “cotto” e cambiava. Un patchwork geologico che si ritrova nel suo vino più rappresentativo, il Malandrino. Malandrino di nome e di fatto questo suo Nerello Mascalese lavorato in purezza e macerato in giara di terracotta, un bambino vivace e scanzonato, scaltro e impertinente. Non saprei come descrivervelo meglio, bevetelo e assaggiate anche la novità 2018 di Diego, il Catarratto macerato Angelica.

La mia passeggiata sull’Etna inoltre si è arricchita con molti altri assaggi dai vari versanti. Per cominciare ho ritrovato i vini del versante sud di Grottafumata assaggiati a Vini Veri (qui). Mediterraneo in bottiglia. Poi non ho potuto saltare l’omaggio a uno dei più grandi interpreti della vinificazione naturale sul vulcano, Davide Bentivegna di Etnella, è ho fatto bene perché ho avuto l’occasione di assaggiare il suo Tracotanza, classico blend etneo di Nerello e Cappuccio, ma nella versione PLUS (scritto a penna in etichetta) ovvero da un piccolo appezzamento prefilosserico custodito in azienda. Ancora mi ha conquistato l’Etna Bianco Sciare Vive di Vigneti Vecchio a Solicchiata: carricante in purezza, per me il miglior vitigno bianco del vulcano, che trova la sua incoronazione in un piacevole passaggio in legno. Un gesto sapiente che non appesantisce ma completa un grande lavoro in vigna e regala un vino bianco dal gusto così territoriale e specifico da diventare universale nella sua potenza. Infine, ho conosciuto un nuovo progetto, quello di Emilio Sciacca che nel 2015 ha deciso di ridare vita al Palmento la Martinella, in località Linguaglossa, storicamente vitato ma poi abbandonato con il passare degli anni. Quattro parole e definire il suo sogno: Wine, Human, Nature, Etna. Non vedo l’ora di assaggiare le prossime annate del suo Biancopiglio e Rossobrillo.

Tornando al Catarratto non posso raccontarvi l’interpretazione di Francesca Barracco nell’entroterra di Mazara del Vallo. Responsabile delle vinificazioni è Roberto Bruno che mi versa quello che per lui è come un figlio. Catarratto 2017, un vino che difficilmente potrà ripetersi e nella sua unicità trova la consacrazione a capolavoro. Roberto mi racconta dei 65 gradi in vigna e di come solo le piante più vecchie abbiano trovato un loro modo per sopravvivere regalando l’uva più concentrata e saporita che si potesse immaginare. Il vino che ho nel bicchiere infatti è davvero carico di colore nonostante i soli 3 giorni di macerazione e mi soprende per il profumo intenso di erba e fieno e con il gusto di frutta matura, calda e assolata.

Sempre sul tema bianchi a Teruar ho assaggiato la nuova annata del Grillo di Manlio Manganaro. Uscito per la prima volta l’anno scorso con la 2017 è un vino che ha fatto subito parlare di sé anche per la fraterna collaborazione di Manlio con uno dei produttori di riferimento del trapanese come Antonino Barraco. Un vino di cui vi ho già parlato (qui) per quanto mi avesse colpito in eleganza al palato e originalità nella lavorazione. L’assaggio della 2018 è racconto stesso di un’annata non fortunata dove, soprattutto lavorando in assenza di correzioni chimiche, si è dovuto fare il meglio con quel che poteva. Ma Manlio si è mosso bene, benissimo, ha introdotto un ulteriore livello di complessità alla sua lavorazione macerando parte della massa ad acino intero e ottenendo un vino che porta in pieno la sua firma. Più acido e verticale è un Grillo saggio che accompagnerà negli anni chi vorrà aspettare ma che regalerà grandi gioie anche a chi vorrà berlo domani. Anzi oggi.

 

 

Sorpresa delle sorprese è stato l’assaggio in super anteprima dell’ultima creatura di Fabio Ferracane, il Muffato 2013. La maggior parte dei suoi vigneti si trova di fronte alla Riserva Naturale delle Isole dello Stagnone di Marsala e tutte le lavorazioni sono gestite nel più totale rispetto della tradizione marsalese. E proprio pensando alla sua terra e al Marsala, oggi un’ulteriore interpretazione di Catarratto si aggiunge alla sua linea, quella in botte scolma. Una lavorazione nata quasi per scherzo, ma che con pazienza si è trasformato in una rarità dal gusto testardo ed estremo. Un vino per pochi, anche visto il limitato numero di bottiglie, che spero abbiate occasione di assaggiare, io spero di riberlo presto, magari passeggiando tra le vigne di Fabio.

L’unica cantina di Pantelleria presente non ha bisogno di presentazioni, si tratta di Abbazia di San Giorgio di Battista Belvisi. Dire che mi sono innamorata del suo rosato e dire poco. Cloè, nerello mascalese macerato poche ore e poi lasciato affinare in parte in acciaio e in parte in botti di castagno. Poesia.

E allora? Vi ho dato abbastanza motivi per prenotare subito un volo per la prossima edizione di Teruar? Io credo di si, e quindi, arrivederci nel 2020!